Ius caeleste. Il cielo (ri-)aperto, contro ogni riduzionismo del Natale.

Ci sarebbe da auspicare, paradossalmente, il ripristino di una vecchia prassi, abusiva per la verità: la possibilità cioè che i pastori in cura d’anime possano pregare il breviario una volta a settimana, soddisfacendo in un’unico momento di preghiera a tutte le ore dei giorni seguenti. Forse esageriamo, ma la liturgia delle Ore del 26 dicembre, pur celebrando il martirio di santo Stefano, offre una chiave teologica e pastorale assai interessante per illuminare il mistero del Natale. Se fosse stata pregata prima del Natale, più di qualche interpretazione troppo orizzontale, banale e sentimentalista che puntualmente ci tocca sentire nell’omiletica natalizia, magari avrebbe potuto esserci risparmiata. Ma dubitiamo che quanti nei loro sermoni preferiscono divagare sul contemporaneo e sul mondano, si lascerebbero correggere dai contenuti della liturgia.

Eppure, è sorprendentemente insistente la ripresa di uno dei temi della vicenda di Stefano, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, quello dello schiudersi dei cieli e, quindi, dell’ingresso del protomartire in sessi. I responsori delle letture dell’Ufficio sono lapidari e nitidi:

Stefano, servo di Dio, lapidato dai Giudei, vide i cieli aperti, e vi entrò: beato l’uomo a cui il cielo si schiude […vidit caelos apertos: vidit et introivit: Beatus homo, cui caeli patebant]

Ieri il Signore Gesù è nato in questo mondo, perché oggi Stefano nascesse alla vita del cielo; è venuto sulla terra, perché Stefano entrasse con lui nella gloria [Dominus…ingressus est in mundum, ut Stephanus ingrederetur in caelum]

Le antifone salmiche, delle lodi soprattutto, e l’antifona al Benedictus riprendono analogamente il tema.

L’inno tradizionale, mantenuto solo nell’edizione latina del Salterio (l’italiana rimanda all’inno dal Comune dei martiri), in alcuni passaggi tributa a santo Stefano queste espressioni: cittadino associato ai giusti ( tu che sei stato associato come cittadino ai giusti, che hai ottenuto la cittadinanza fra i giusti) […] erede della regione gloriosa.

Non può non ritornare alla mente un’altro inno, quello delle Lodi nei giorni fra il 17 dicembre e il Natale, Magnis propheta vocibus, nel quale occorre un’espressione curiosa: iam non iubar praefulgidum / ad ius vocat caelestium. Si parla della stella, la cometa, che è lo stesso Cristo, che chiama a partecipare alla gloria, al privilegio dei celesti!

Fa un pochino riflettere sentire fior di pastori affannarsi e immischiarsi nella questione – tutta civile – dello ius soli, e tacere al contrario su quanto spetterebbe loro di ufficio: chiamare allo ius caeleste, additare il cielo aperto!

Che la grazia del Natale conceda a tutti noi di vivere avendo ben presente quale sia la nostra vera cittadinanza e avendo il “cielo aperto” come realtà patente, reale e concreta nella vita quotidiana.

P.S. Appare bizzarra una traduzione inglese dell’inno dell’avvento in questione: secondo la pagina web http://translations.ipsissima-verba.org/magnis-prophetae-vocibus.html, si dovrebbe tradurre nel seguente modo: Eternal splendor is made known; / The saving star has clearly shone. / Already heaven’s brilliant light /
Is calling us to what is right.

La settimana dello Spirito. Che inizia con l’esultanza della carne!

Ogni santo lunedì di Pasqua – eccetto il lunedì dell’Ottava -, la liturgia ci ha presentato un versetto transitorio tratto dal Salmo 83: Esultano il mio cuore e la mia carne, alleluia. Nel Dio vivente, alleluia. Questo lunedì della VII settimana di Pasqua, il Salmo 83 era pure il primo salmo delle Lodi, con la sua antifona salmica: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente, alleluia (avevamo già scritto qualcosa a proposito, qui).

Forse questa duplice occorrenza non stupirebbe più di tanto. Eppure è curiosa tale insistenza il giorno dopo, almeno in Italia, aver celebrato la sollennità dell’Ascensione al cielo del Signore Gesù. Ad essere sinceri, noi avevamo desta l’attenzione a causa della lettura di alcuni testi di Joseph Ratzinger, a proposito di questo mistero.

I testi liturgici della Chiesa d’Oriente mettono in evidenza anche un altro aspetto di quell’evento. Vi si legge: “Il Signore è risorto, per risollevare l’immagine decaduta di Adamo e per mandarci lo Spirito che santifica le nostre anime”. L’Ascensione di Cristo rivela anche l’aspetto a prima vista nascosto dell’Ecce homo. Pilato ha mostrato alla folla radunata il Gesù reietto e abbattuto, rinviandolo in tal modo al volto oltraggiato e umiliato dell’uomo come tale. “Guardate, questo è l’uomo”, aveva detto. […] L’evoluzionismo ci riporta al passato, ci mostra il risultato delle sue ricerche, l’argilla da cui è venuto l’uomo, e ci martella: questo è l’uomo. Sì, l’immagine di Adamo è decaduta; giace nella sporcizia e continuerà ad essere sporcata. Ma l’Ascensione di Cristo dice ai discepoli, dice a noi: il gesto di Pilato è solo una mezza verità, e ancor meno di questo. Cristo non è solo il volto insanguinato e trafitto; egli è il Signore di tutto il mondo. Ma la sua signoria non umilia la terra, le restituisce il suo splendore, la possibilità di parlare della bellezza e della potenza di Dio. Cristo ha risollevato l’immagine di Adamo: voi non siete solo sporcizia; vi innalzate al di sopra di tutte le dimensioni cosmiche fino al cuore di Dio. L’Ascensione di Cristo è la riabilitazione dell’uomo. […] Ci dice che l’uomo può vivere rivolto verso l’alto, che è capace dell’altezza. Di più: l’altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso. A questa altezza l’uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. […] Non si comprende l’uomo se ci si chiede solo da dove viene. Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. […] Solo partendo da qui si può imparare ad amare l’umanità in sé e negli altri. Per questo la parola più importante nei riguardi dell’uomo non può essere l’accusa. Certo l’accusa è necessaria, perché la colpa sia riconosciuta come colpa e sia distinta dalla vera essenza dell’uomo. […] L’antidoto più efficace contro la rovina dell’uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L’Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull’uomo. Essa ci insegna il rispetto per l’umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini. [J. Ratzinger, Immagini di speranza, Cinisello Balsamo 1999, 51-53]

Ritornando per un attimo ai testi della Liturgia, colpisce la diversa sfumatura che assume il Communicantes proprio della solennità dell’Ascensione della prima preghiera eucaristica rispetto alla seconda e alla terza:

In comunione con tutta la Chiesa, mentre celebriamo il giorno santissimo nel quale il tuo unigenito Figlio, nostro Signore, ha portato alle altezze della tua gloria la fragile nostra natura, che egli aveva unito a sé, ricordiamo e veneriamo….

Ricordati, Padre, della tua Chiesa… e qui convocata nel giorno glorioso dell’Ascensione in cui Cristo è stato costituito Signore del cielo e della terra…

Finiamo di nuovo con Ratzinger:

Le parole fiduciose con le quali un padre della Chiesa, l’africano Tertulliano, più di 1500 anni fa ha riassunto il senso dell’Ascensione di Cristo al cielo sono oggi attuali come allora: “Consolatevi, carne e sangue: in Cristo avete preso possesso del cielo e del regno di Dio!” (De car. Chr. 17). [J. Ratzinger, Opera Omnia VI/2, Gesù di Nazaret. Scritti di Cristologia, Città del Vaticano 2015, 276]

E noi, consolati davvero, ripetiamo: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente!

Un salmo compiuto. Ancora sulle antifone

Con molto ritardo sull’effettiva contemporaneità della preghiera proposta dal corso della Liturgia delle Ore, vorremmo di nuovo sottolineare un piccolo particolare. Ci siamo più volte soffermati, tentando di suscitare apprezzamento e gusto per la preghiera del Salterio, anche sui minimi dettagli: aggiungiamo ora un altro esempio.

L’ufficiatura dei primi vespri della V domenica di Pasqua segue il consueto ciclo di distribuzione salmica in quattro settimane. Di proprio abbiamo, analogamente alla  Quaresima, le antifone. Il secondo salmo è il 141, Con la mia voce al Signore grido aiuto. Il titolo e la sentenza patristica aiutano a comprenderne il senso e la rilettura cristologica. L’antifona, che riprende il salmo stesso, ci aiuta a fare un altro passo. Come spesso accade, ci è di miglior ausilio il testo latino. Vediamo con calma.

Ant. V domenica di Pasqua: «Mi hai liberato dal carcere di morte: rendo grazie al tuo nome alleluia».

Il testo è modellato evidentemente sul versetto 8 del salmo stesso: «Fà uscire dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome». Chiara è l’intenzione di far rileggere e pregare il salmo, illuminato dalla luce pasquale di un combattimento già vinto e di una liberazione compiuta. Ancora più stringente è la correlazione teologica fra antifona e salmo se guardiamo la versione latina:

Ant. Eduxísti de custódia ánimam meam ad confiténdum nómini tuo, allelúia.

Sal. Educ de custódia ánimam meam ad confiténdum nómini tuo

Nella piccola variazione di un modo verbale è racchiusa una teologia ricchissima: Davide e la sua angoscia “quando era nella caverna” (così dice il testo della Scrittura) erano prefigurazioni di un’altra angoscia, quella di Cristo nella Passione (così dice, fra l’altro, la sentenza patristica del salterio). E’ il Signore Gesù il vero orante del Salmo, e nella sua preghiera offre anche a noi ancora pellegrini la certezza della liberazione e della vittoria. E’ Lui che può dire, come Capo del corpo: Mi hai liberato dal carcere di morte. Noi, come membra di Lui, possiamo già partecipare della sua vittoria e, nella fede, possiamo fare nostra la sua esultanza. Ma come ogni buon cristiano sa, il mistero della salvezza, ricapitolato e compiuto in Cristo, si deve compiere escatologicamente in ciascuno. La liberazione pasquale sarà completa quando l’ultimo nemico sarà sconfitto. Ecco perché San Francesco, nel suo pio transito, come ultima preghiera volle proclamare il salmo 141:

…L’uomo a Dio carissimo comandò che gli portassero il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che incomincia: “Prima della festa di Pasqua…”. Egli, poi. come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: “Con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico ” e lo recitò fin al versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa”. Quando, infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. (Fonti Francescane, Leggenda maggiore,1242-1243)

Con questa citazione edificante, terminiamo queste poche righe, con l’augurio di una proficua preghiera della Liturgia delle Ore, domani, 14 maggio 2020, festa di San Mattia apostolo.

Noi – dobbiamo confessarlo – non celebreremo alcuna giornata universale di preghiera contro la pandemia insieme a tutti i «fratelli» del mondo e di ogni credenza religiosa. Noi, con santa Madre Chiesa celebreremo la festa di San Mattia. Pregando, come ogni giorno da qualche tempo, per la liberazione dalla pandemia, ma non solo.

Una correzione che ci fa felici

Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una mail da p. Antonio Montanari, patrologo, professore alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, ora cappellano all’Abbazia  Notre-Dame de Bon-Secours in Provenza. Le sue note ci rimproverano una libertà che ci siamo presi con troppa leggerezza. Avevamo riportato un paragrafo di Pascher (1) senza verificarne attentamente ed integralmente il contenuto: troppo concentrati su un’aspetto che intendevamo enfatizzare, ci è sfuggita un’affermazione, attinta dall’articolo del liturgista tedesco, ma che nel testo del nostro post abbiamo fatta nostra con troppa disinvoltura.

Ora il nostro benevole lettore ci corregge, e noi siamo ben felici di accogliere le sue precisazioni, facendone occasione per imparare e fare tesoro dell’altrui sapienza. Una critica davvero costruttiva, e una correzione dallo sbocco positivo (cf. Eb 12,11)

Tali censori saranno sempre benvenuti! Anche a nome di tanti altri lettori, ringraziamo p. Antonio per il suo appunto.

Il post cui p. Montanari si riferisce è quello relativo all’antifona d’introito della Messa di Pasqua (cf. qui). Ma ecco il cuore della correzione:

Ho letto stamattina il suo articolo Apparuit Simoni? che rimandava a un testo del 26 marzo 2016, a proposito dell’introito pasquale “Resurrexi et aduc tecum sum” nel quale afferma che si tratta di «una versione corrotta del salmo138». A questo riguardo cita Pascher, il quale definisce l’Introito di Pasqua un’ «antifona, che conserva l’errore di traduzione».

Nella stessa pagina riporta due bei testi di Benedetto XVI, che di liturgia se ne intende, il quale, nel Messaggio per la Pasqua 2008 scrive: «“Resurrexi et adhuc tecum sum – Sono risorto e sono ancora e sempre con te”. Queste parole, tratte da un’antica versione del Salmo 138 (v. 18b)». Giustamente, come ricorda Benedetto XVI, il versetto del Salmo 138 utilizzato come antifona d’Introito è tratto da un’antica versione latina del Salterio, condotta sul testo greco della Settanta, rimasta in uso nella liturgia anche dopo la Vulgata di san Girolamo”.

Dunque, non si tratta di una «versione corrotta» e tanto meno di un «errore di traduzione» del Salmo. L’anomalia sta invece nella versione attuale del Salterio, ripresa dal testo masoretico, senza tener conto della lunga tradizione liturgica che l’ha preceduta. Fino alla riforma liturgica successiva al Vaticano II non solo i testi della liturgia, ma la stessa Bibbia cristiana non è mai stata quella ebraica, bensì la Bibbia greca dei Settanta, dalla quale sono state ricavate le versioni antiche e non solo quella latina. È a partire dal testo greco della Settanta che i Padri e i loro successori hanno elaborato la liturgia e la loro teologia. È noto inoltre che la versione del Salterio che san Girolamo ha tradotto dall’ebraico non è mai stata utilizzata nella liturgia, che si serviva invece del Salterio gallicano, tradotto dal greco. Come si intuisce, il problema sta nella mancanza di memoria di chi ha imposto una novità – la nuova traduzione dall’ebraico del Salterio – che ha reso incomprensibili le antiche riletture cristologiche, consentite dal testo greco, che aveva tradotto l’ebraico Messia con il termine Christos, predisponendo in questo modo una lettura cristiana.


(1)  J. Pascher, «Il nuovo ordinamento della salmodia nella Liturgia romana delle Ore», in Liturgia delle Ore. Documenti ufficiali e Studi (Quaderni di Rivista Liturgica 14), Leumann (TO) 1972, 161-184.

 

Di sonno in sonno: strane vigilie, quelle pasquali.

Lo facemmo già per l’Ottava di Natale (cf qui); ora – mentre si scrive sono le 02.30 – non possiamo attardarci a farlo anche per l’Ottava di Pasqua. Eppure siamo convinti che l’analisi approfondita della distribuzione della salmodia riserverebbe bellissime sorprese, ad onore dei tanto vituperati periti del Consilium: non furono così scriteriati da rigettare le perle preziose della tradizione, al contrario ci hanno lasciato un tesoro incredibile.

Nei giorni in cui la salmodia delle lodi e dei vespri rimane sempre la medesima del giorno di Pasqua, è naturale fermare l’interesse sulla salmodia delle Ore minori, ossia le ore intermedie (Terza, Sesta o Nona) e l’Ufficio delle Letture. Come oggetto vogliamo qui prendere proprio l’antico ufficio vigilare, oggi riformato perché si possa pregare nell’ora più appropriata a seconda delle situazioni.

Osserviamo l’ufficiatura della domenica dell’Ottava, o Seconda di Pasqua. Abbiamo i tre consueti salmi che segnano l’inizio di un nuovo tempo liturgico o di un nuovo ciclo salmodico quadrisettimanale, ossia il salmo 1, il 2 e il 3. Nell’Ottava li abbiamo già pregati il lunedì, con le medesime antifone. Ci soffermiamo sulla terza, che riprende pressoché letteralmente il testo biblico: «Ego dormívi, et somnum cepi: et exsurréxi, quóniam Dóminus suscépit me, allelúia, allelúia. (Dormivo nel sonno della morte, e mi sono risvegliato: il Signore mi ha preso accanto a sé, alleluia)». La versione italiana del salmo non corrisponde perfettamente all’antifona: «Io mi corico, mi addormento e mi risveglio: il Signore mi sostiene» (Sal 3,6); assai più immediata è l’associazione fra antifona e testo latino: «Ego dormivi et soporatus sum exsurrexi qui Dominus suscipiet me». L’antifona e il salmo relativo è un dato tradizionale, che la Liturgia delle Ore conserva e rielabora, inserendolo sia all’inizio sia alla fine dell’Ottava pasquale.

Il tema del sonno e del risveglio è uno dei tanti aspetti del mistero pasquale. Si badi bene che non si tratta di un mero riferimento al ciclo biologico quotidiano. Il sonno è qualificato assai positivamente: non viene determinato solamente dalla fatica o dalla stanchezza, ma è un sonno sereno, calmo, serafico. Ce lo dice, curiosamente, il sabato santo: come primo salmo dell’Ufficio, proprio, abbiamo il salmo 4, con un antifona che  ne riprende l’ultimo versetto: «In pace in idípsum, dórmiam et requiéscam (Tranquillo mi addormento, e riposerò nella pace)»; la versione italiana del testo biblico recita: «In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare (Sal 4,9)»(1).

Nel sonno sereno e «fiducioso» di Cristo, nel giorno del grande silenzio sabbatico, è già annunciata la vittoria sulla tragica morte. Il sonno agitato lo ebbero gli inferi, quella notte! E dopo la mattina di Pasqua, per due volte, la liturgia ci fa ritornare su quel sonno, da cui il Signore Gesù si è risvegliato.

Certo che è davvero stravagante, la liturgia cristiana: in quelli che originariamente erano uffici vigilari, in cui davvero si «rompeva il sono», alzandosi nel cuore della notte a pregare, si parla di sonno a più non posso!

Beh, ora andiamo a dormire anche noi!

Non prima, però, di aver consigliato la lettura di una catechesi di Benedetto XVI sul Salmo 3: cf. qui, per arricchirne la preghiera: quel sonno di Cristo fu anche il sonno di Davide…


(1) Si ricorderà che il Salmo 4 è il primo salmo della compieta della notte fra il sabato e la domenica. L’antifona è: «In te confido, Signore, e in pace mi addormento».

Apparuit Simoni?

Notiamo che da alcune parti si è levato un grido di sdegno, o comunque si è fatto notare insistentemente il fatto che Papa Francesco e il suo Maestro delle Celebrazioni abbiano scelto di omettere il rito del Resurrexit, un rito proprio della liturgia papale nella mattina di Pasqua (per una spiegazione del rito, si veda qui).

Non vorremmo fare ulteriori polemiche. Già altrove ci siamo espressi in modo forse irrispettoso e smodato, definendo come “un mortorio” la veglia pasquale papale, quest’anno celebrata senza concorso di popolo (ma anche con concorso di popolo le cose non sarebbero andate molto meglio…). Peraltro, dal nostro modestissimo modo di vedere, tale scelta risulta sensata: essendo in origine, e in ultima istanza, il Resurrexit un rito di pace, nell’ordo eccezionale di questi giorni,  in cui lo scambio della pace è omesso, avrebbe potuto risultare eccessivo e contraddittorio.

Comunque, altri sono gli interrogativi che possiamo far emergere da quanto abbiamo sentito e visto.

La prima considerazione riguarda la superficiale disinvoltura con cui sono state interpretate alcune espressioni della liturgia. Anche Papa Francesco, o chi per lui ha scritto la bozza del Messaggio Urbi et Orbi, ha citato l’antifona di Introito della Messa di Pasqua (senza peraltro citarla con precisione), su cui noi abbiamo rinviato tante volte nel corso di questi giorni (cf. qui). Eppure lo ha fatto forzandone il senso, per assecondare quanto si voleva esprimere, fra l’altro su un tema controverso come quello dell’impossibilità di partecipare alle celebrazioni pasquali: «Siamo certi che il Signore non ci ha lasciato soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posato su di noi la sua mano (cfr. Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, “sono risorto e sono sempre con te” (cfr. Messale Romano)!»

Ora, l’espressione “Sono risorto e sono sempre con te“, è stata tradizionalmente interpretata come parola di Cristo rivolta al Padre. Come se le parole del Salmista, dopo la morte e resurrezione del Signore Gesù, fossero ora diventate il Suo ringraziamento: «Tu hai posto su di me la tua mano, è stupenda per me la tua saggezza». La mano è quella del Padre. Almeno secondo la tradizione interpretativa della liturgia. Ci volle la finezza, seria e corretta, di Benedetto XVI, per immaginare che questo dialogo, diciamo, intra-trinitario potesse diventare anche una parola rivolta da Cristo all’uomo.

Quello che stigmatizziamo qui, ciò che ci infastidisce e ci preoccupa, è il fatto che in un momento così importante, il discorso di Papa Francesco, questo discorso, e più in genere la comunicazione pontificia di questo periodo, mostri una tale superficialità: la sensazione è che su alcuni temi non si abbia voglia di insistere, e ci si accontenti di frasi veloci e quasi di circostanza. Mentre su altri – e in genere non sono mai questioni proprie all’ufficio di Pietro, quello cioè di confermare nella fede i fratelli – l’attenzione è molto più marcata, le parole sono puntuali e precise.

Chi ha preparato quel discorso mostra una singolare contemporaneità con questioni politiche, sociali ed economiche.

Come se il Messaggio Urbi et Orbi lo si abbia pensato dopo un’accurata rassegna stampa su giornali, e sappiamo quali siano i preferiti e gli unici che arrivano a Santa Marta, piuttosto che nella contemplazione dei misteri pasquali proclamati nei Vangeli e celebrati efficacemente nella liturgia.

Da quello che si è visto esternamente, più che il Maestro e Signore Risorto, al successorre di Simone il pescatore parrebbe essere apparso un ghostwriter, collaterale al governo italiano o, certamente, politicamente schierato. In effetti, nell’entourage papale, ce ne sono vari di personaggi che amano dilettarsi su questioni che attengono la scena politica ed economica.

Ma la mattina di Pasqua, dalle parti del Vaticano, farebbe piacere – e sarebbe assai più necessario – sentirsi ripetere l’antico saluto di pace, ispirato a Luca 24,34: Surrexit Dominus vere! A cui volentieri si risponderebbe, secondo l’uso romano, Et apparuit Simoni!

Ancora sulle antifone

Sovente da queste pagine facciamo osservazioni e considerazioni sulle antifone che impreziosiscono la preghiera dei salmi come pure l’eucologia delle celebrazioni eucaristiche. A proposito dell’uso che ne fa la Liturgia delle Ore, è fondamentale la lettura degli articoli dei Principi e Norme per la Liturgia delle Ore, dal numero 110 al 120. Pensiamo di fare cosa gradita nel proporre alcuni paragrafi di un domenicano francese, teologo e musicista. Perdonerete la lunga citazione, e il finale rinvio ad un post datato, ma adatto a questo tempo.

Posta prima e dopo il salmo, l’antifona è quel canto singolare che ne offre la chiave di lettura. Si tratta in questo caso di una vera e propria invenzione dei cristiani. Già nel IV secolo Ambrogio di Milano faceva pregare i suoi in questo modo per meditare la Parola di Dio. Ogni volta che veniva celebrata una festa erano molti i salmi da cantare; come fare per comprenderli, per intenderli? L’antifona, un pò come il ritornello di una canzone, conferiva al salmo l’atmosfera del giorno. A Pasqua, a Natale, o in occasione delle feste dei santi, lo stesso salmo poteva così assumere una dimensione differente.

Spesso breve, estremamente coincisa – talora anzi si tratta semplicemente di una frase del salmo un pò rielaborata -, l’antifona illumina di nuova luce un testo già conosciuto perché sovente ripetuto. Spesso tratta dalla Scrittura, ad esempio dal vangelo stesso, mostra in fin dei conti come si operava nella liturgia la sintesi tra l’antico e il nuovo, tra i testi «del passato» e la persona di Cristo. Non bisogna esitare a parlare qui di riappropriazione cristiana dell’eredità biblica. Da questo punto di vista, la letteratura liturgica è uno strumento che permette a ciascuno di dire «io», in chiave poetica e musicale. E’ esattamento in questo senso che bisogna intendere l’antifona: essa mette in sintonia un determinato canto con la festa che si sta celebrando. Le antifone venivano cantate sempre in piedi, abitudine che i religiosi hanno conservato. Prima e dopo il salmo, ma anche, talora, nel corpo del salmo: quando i cantori e le scholae ne avevano cantati i versetti, il popolo li riprendeva. L’antifona diventava così la risposta dell’assemblea che faceva eco al canto dei solisti. In questo si evidenzia un aspetto molto importante: l’antifona è la preghiera che si ripete a memoria. Breve, con una nota per sillaba o un passaggio sobriamente ornamentale – a differenza di altri brani della liturgia -,è uno sviluppo meditativo del testo, un teso cantato semplicemente, sobriamente, festosamente dall’assemblea in risposta all’ascolto del salmo. […] [I Salmi] Sono il tesoro di un popolo di credenti. Gli sono stati donati. E’ nella carne del popolo di Israele che questa parola biblica è stata rivelata. I cristiani seguono umilmente le orme dei figli della stessa promessa. Scrittura e liturgia sono le due mammelle della fede: prima ancora che nascesse un teologia, c’era un popolo che salmodiava, un popolo che ruminava la Parola, un popolo che custodiva la memoria.

A. Gouzes, La notte luminosa. Iniziazione al mistero della Pasqua, Magnano (BI) 2015, 46-47.49.

Sarà sufficiente usare l’opzione di ricerca per trovare vari post dedicati a diverse antifone: se ne indica uno in tema ai giorni attuali del triduo pasquale: vedi qui.

Le due specie (solo un pretesto per richiamare l’attenzione)

In effetti, abbiamo in mente di approfondire il ripristino della Comunione sotto le due specie. Da quello che ne sappiamo – si accolgono suggerimenti e indicazioni da benevoli lettori – il tema non è stato completamente esposto. L’articolo precedente ne era un piccolissimo saggio.

Eppure, in questo post, parleremmo di tutt’altro, o forse no. Apparentemente sembrerà non avere nulla a che fare con il futuro tema di studio, se non perché nella testa ci frullava il termine, e lo abbiamo notato mentre pregavamo i vespri del lunedì della settimana santa. Piccolo inciso: anche noi ci uniamo a quanti, pochi per la verità, facevano notare che piuttosto che moltiplicare, in questi giorni di quarantena, liturgie virtuali, messe e celebrazioni dai luoghi più disparati e trasmessi via web, fino all’invenzioni di paraliturgie (1) discutibili quanto spettacolari e studiate in favor di telecamera, sarebbe stato il caso di insistere nella vera Liturgia che si possa autenticamente e propriamente celebrare in casa, ossia la Liturgia delle Ore. In essa ci sono sicuramente più tesori e spunti per la meditazione che non negli sproloqui generici, orizzontali, quando non pateticamente ridicoli, che ci è toccato sentire in questi giorni. Ad essa, la Liturgia delle Ore si dovrebbe tornare, al suo nutrimento sobrio ma efficace; mettere il popolo di Dio nelle condizione di comprenderla e celebrarla, smettendola con il chiacchiericcio clericale, spesso insignificante (ndr, non stiamo parlando del nostro parroco, che stimiamo e amiamo). Dunque torniamo alla Liturgia delle Ore.

Per la verità, su un particolare caso dell’Ufficiatura vespertina del lunedì santo, era già stata accesa una luce, e che luce!, da un certo cardinale Joseph Ratzinger (cf. qui). Ieri però guardando il testo latino, ci siamo meravigliati di come sia ancora più impressionante l’assonanza, impossibile da non notare. Ci riferiamo al fatto che il primo testo della salmodia, il Sal 44, è preceduto dalla notazione di tre antifone: una indicata per la quaresima, una per il lunedì santo e la terza poi per il tempo pasquale. Il contrasto fra le prime due è, a primo aspetto, enorme: si passa dal più bello fino al più ripugnante. Eppure introducono il medesimo salmo, fornendone la chiave di lettura per una preghiera cristologica. I predicati non fanno saltare la sintassi, se, opposti, sono applicati allo stesso soggetto? O piuttosto, non c’è qui, nascosta fra le righe – in tutti i sensi! – una teologia del mistero pasquale? La morte e la resurrezione, mirabilmente unite…

Speciosus forma prae filiis hominum, diffusa est gratia in labiis tuis [Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia.

Non est ei species neque decor; et vidimus eum, et non erat aspectus [Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore]

Speciosus forma es prae filiis hominum, diffusa est gratia in labiis tuis [Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia]

L’antifona indicata per il lunedì santo, una citazione del profeta Isaia (cf. Is 53,2), pare del tutto appropriata per la preghiera nella settimana santa; più interlocutoria pare quella prevista per la quaresima, che in modo più neutro non fa che riprendere il versetto 3 del salmo, e che, sappiamo, sarà quella usata per il resto del tempo ordinario e anche per l’avvento. Se non sbagliamo, dunque, Non est ei species neque... è un’antifona unica e propria dell’ufficiatura del lunedì santo, che però mantiene i salmi della consueta distribuzione quadrisettimanale (salmi propri li troviamo a partire dall’Ufficio delle Letture del Venerdì santo). Il contrasto quindi risulta sia con l’antifona consueta che  rispetto all’immediato contenuto del salmo relativo, esaltante la bellezza del re messianico.

La liturgia delle Ore ci introduce a suo modo, anche nei minimi dettagli testuali, nel mistero pasquale a cui ci stiamo preparando. E, crediamo, lo faccia assai meglio di molti sussidi e libretti che stiamo vedendo girare in questi giorni. Basterebbe guardare bene fra i tesori che già la Chiesa possiede, e formare gli oranti ad una sapiente attenzione. Ma, si sa, una vera formazione ed un’autentica catechesi liturgica latitano da parecchio: più facile accontentarsi di un pò di emotività e di quattro frasette da Libro Cuore del tipo “nessuno si salva da solo”.

P.S. C’è un’altra specie, nella preghiera del lunedì santo, quella della sposa regina, di cui il re è innamorato: et concupiscet rex speciem tuam (al re piacerà la tua bellezza), ma siamo  nella seconda sezione salmodica del Sal 44, e sono altre antifone.

Quindi un re sotto le due specie e una regina anch’essa speciosa. Ma per ora si è già detto troppo! Se si vuole continuare a leggere qualcosa di simile, relativo al diverso uso di antifone e salmi, si veda qui, ad esempio.

 


(1) A proposito del recente momento di preghiera sul sagrato di San Pietro, ci chiediamo se la prima parte non potesse essere inglobata nella liturgia dell’esposizione, dell’adorazione e della benedizione eucaristica, che può prevedere una sorta di liturgia della Parola. Non abbiamo capito, ma se qualcuno vorrà aiutarci lo accoglieremo, questa netta separazione fra i due momenti: da una parte il testo evangelico letto senza alcuna solennità, la meditazione, la venerazione in una forma minimalista del Crocifisso e dell’Icona della Madonna Salus Populi romani, e poi, l’esposizione, l’adorazione e la benedizione eucaristica. Forse poneva qualche ostacolo la rubrica del rituale: «Durante l’esposizione, orazioni, canti e letture, si devono disporre in modo che i fedeli in preghiera orientino e incentrino la loro pietà sul Cristo Signore» (112)? Pareva troppo, per un’evento che magari era pensato per un pubblico anche di non credenti? Ma il Papa deve fare questo? O altro? Diciamo questo perché lo abbiamo confessato umilmente: non abbiamo capito i motivi, che diverso dal dire che non ce ne fossero di validi.

 

 

Argumentum ad “rossettum”. Divagazioni intorno a Sacrosanctum Concilium

Avendo tempo e possibilità – lo scoglio del latino forse spaventa molti -, è interessante rileggere gli interventi in aula durante la fase sinodale del Concilio Vaticano. Si troveranno spunti importanti e argomentazioni alte, come pure schermaglie dialettiche forse esagerate, o comiche (il cronista annota anche le risate dei Padri sinodali, oppure il mormorio, o qualcuno che implora che l’oratore di turno finisca finalmente). Ci è capitato varie volte di immaginare la scena, o le facce dei Padri durante qualche intervento sopra le righe, apprezzando la pazienza e il grande lavoro di quegli anni. Davvero sorprendente fu la libertà di spirito che caratterizzò la macchina sinodale, e la varietà degli argomenti – anche quelli apparentemente più deboli o bizzarri – evidenzia una franchezza e una parresia che forse oggi non possediamo più (anche in queste settimane registriamo timidezze, piaggerie, silenzi e tentativi di silenziare che contraddicono il tanto sbandierato stile sinodale).

Al Vaticano II la discussione fu reale, franca e fino all’ultimo argomentare. E proprio una delle ultime argomentazioni, ci pare quella espressa dall’allora cardinale di Westminster, W. Godfrey, per rigettare la proposta della reintroduzione della Comunione sotto le due specie.

Il testo proposto all’attenzione dei padri conciliari era, nella redazione provvisoria, il n. 42: «Communio sub utraque specie, sublato fidei periculo, pro certis casibus a Sancta Sede bene determinatis, uti, v.g. in Missa sacrae Ordinationis, iudicio Episcoporum, tum clericis et religiosis, tum laicis concedi potest» (1).

Il cardinale inglese non era favorevole. La questione principale – e da un lato si capisce, essendo lui vescovo in una terra in cui il confronto con diverse confessioni cristiane era vivo e problematico – gli pareva dottrinale: introdurre di nuovo la pratica della comunione al calice poteva sembrare un implicito riconoscimento che la Chiesa Cattolica avesse commesso un errore nel renderla sempre più rara fino a non prevederla più. Strano ragionamento, diremmo noi: per non rischiare di mostrarsi perfettibili, facciamo finta di niente e continuiamo come abbiamo sempre (no, non sempre: da qualche tempo) fatto. Il secondo argomento – più condivisibile – fu che senza una regolamentazione chiara, si sarebbe creata confusione e disparità fra luoghi in cui forse la pratica sarebbe stata frequentamente accolta e luoghi in cui lo sarebbe stato meno. Si pone, inoltre, una questione igienica.

Il cardinale però volle strafare e non contento delle precedenti argomentazioni a sfavore dell’articolo proposto dalle bozze della Costituzione, ne citò altri, sinceramente più folcloristici.

I Padri si potevano forse dimenticare che le gentili Signore, come pure molte ragazze, usano ornarsi le labbra, tingendole di rosso?!

Un’altra questione pratica si solleverebbe nel caso di molti e molti fedeli da comunicare, senza dimenticare poi che ve ne sono che non amano bere sostanze alcoliche (il numero di tali persone, secondo la nostra esperienza, in Inghilterra non dovrebbe essere poi così rilevante, o forse i tempi sono cambiati…).

Comunque, al di là di quello che se ne possa pensare, abbiamo pensato di scrivere queste righe a testimonianza della franchezza e dell’autenticità delle discussioni conciliari. Ogni determinazione venne considerata da più parti, accuratamente.

Quando qualcuno vorrà di nuovo ripetere il motivo monotono del colpo di mano di pochi riformatori, cui i Padri inconsapevolmente cedettero, saprò contraddirlo, esemplificando, anche con l’argumentum ad rossettum!!

Ecco il testo dell’intervento:

De Communione sub utraque specie. Imprimis est difficultas doctrinalis, quia non desunt qui protestantur contra nostram praxim distributionis sacrae Communionis sub unica specie. Si praesens praxis mutaretur, periculum esset ne interpretetur tamquam admissio erroris ex parte nostra in materia doctrinali.

Difficultates etiam sunt practicae, quia si talis fiat mutatio, uti censeo quod limitatio stricte fieri deberet pro tota Ecclesia occidentali, secus, si relinquatur episcopis, habebitur magna confusio, ex praxi diversa in diversis regionibus necnon dioecesibus.

Deinde si sumatur sacra species ex calice, nemo est qui non videt difficultates et obiectiones posse oriri propter rationes hygienicas. Ulterius cogitandum est de mulieribus et puellis accedentibus ad sacram synaxim quarum labia tincta sunt notis illis ornamentis hodiernis rubri coloris. Difficultas evidens est.

Clarum etiam est quod administratio sacrae Communionis sub utraque specie magno fidelium numero crearet magnam difficultatem.

Denique meminisse iuvat quod sunt qui vinum vel alcoholica in quacumque circumstantia sumere nolunt.

Quibus de causis standum est praesenti praxi in Ecclesia latina.

Cf. Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (Concilii Vaticani II Synopsis in ordinem redigens schemata cum relationibus necnon Patrum orationes atque animadversiones), F. Gil Hellin (ed.), Città del Vaticano 2003, 547.


(1) Cf. Gil Hellin, Constitutio…, 164-166.

…né capo, né profeta…né sacrificio…né luogo…

Pregare le lodi, in questo martedì della quarta settimana della quaresima dell’anno del Signore 2020 ha fatto uno strano effetto: le strofe del cantico biblico, incastonato fra i due salmi, ci hanno folgorato come non mai, in particolare questa:

Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia (Dan 3, 38)

Abbiamo subito pensato: ecco, noi siamo ora in questa situazione! Daniele parla di noi! E’ vero, e lo sappiamo, che il santo sacrificio viene celebrato quotidianamente, non mancano occasioni in cui tantissime parrocchie si sono mobilitate per far sentire la vicinanza dei pastori e della loro catechesi ai fedeli, costretti ad un estranea lontananza dai luoghi consueti della comunità cristiana e dalla liturgia. E’ vero, e lo sappiamo bene, come il culto dei cristiani sia un culto esistenziale e spirituale, e come la liturgia pubblica ed esteriore sia solo un aspetto – e neanche il principale – della vita cristiana, globalmente e interamente liturgica, se autentica. Eppure, tutte queste considerazioni non possono cancellare il contraccolpo emotivo e spirituale che le parole di Daniele suscitano in un anima ancora minimamente sensibile. Ci riferiamo, certamente, alla privazione dalla vita sacramentale ordinaria – se qualora la quarantena fosse prolungata anche fino e oltre i giorni della settimana santa, sarebbe ancora più stridente la questione -, ma pure al senso di smarrimento che si prova nel faticare a trovare una parola “profetica” che aiuti a vivere questi giorni difficili; e, ancora, ci riferiamo al fatto che le guide del gregge hanno lasciato interdetti molti, nell’ondivaga determinazione di chiudere e di riaprire almeno alla preghiera individuale le chiese parrocchiali. Possibile che non ci sia stato nessun vescovo, almeno qui in Italia, che si sia alzato a far notare la curiosa circostanza che sia consentito – e lo riteniamo giusto – recarsi dal tabaccaio per acquistare sigarette, mentre sia passibile di multa chi si reca in parrocchia a pregare davanti al tabernacolo?

Tornando al cantico di Daniele, che la liturgia ci fa pregare, assumendo nella preghiera cristiana un testo veterotestamentario, facciamo notare alcune altre espressioni, che pare invece siano scomparse dall’universo concettuale di tanti: “Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto”; “noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanadoci da te, abbiamo mancato in ogni modo”; “ora siamo umiliati per tutta la terra a causa dei nostri peccati”; “potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato”.

Se non vogliamo diventare marcionisti, con questi versetti dobbiamo fare i conti.

Ma, adesso, prepariamoci ad assistere partecipando, o a partecipare assistendo (!?), alla liturgia celebrata da Papa Francesco sul sagrato della Basilica di San Pietro, in questo venerdì della IV settimana di quaresima dell’anno del Signore 2020, in quarantena. Nell’attesa del collegamento, possiamo rileggere alcuni brani a commento della preghiera di Azaria, che Daniele riporta nel suo cantico.

Ci sono state stagioni della storia in cui Israele non ha avuto più né principi (cioè re-pastori che lo guidassero per conto di Dio), né tempio (la roccia salda della presenza della Gloria di Dio in mezzo al popolo). In quei momenti Dio ha comunque mandato dei profeti, perché il popolo non rimanesse privo della sua Parola e della sua guida. Invece Azaria sottolinea che ora, nell’esilio in Babilonia, non ci sono più nemmeno quelli! Non ci sono i profeti. Che rimane da fare? Nient’altro che presentarsi a Dio con un cuore contrito e lo spirito umiliato, che Dio gradirà «come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te» (3,39-40). È bello questo passaggio della preghiera. Ci vedo un po’ di sfacciataggine giovanile, un presentarsi davanti a Dio con la propria nuda vergogna. E voi giovani, mi raccomando: presentatevi davanti a Dio con la vostra nuda vergogna. Vi farà bene. Non solo a voi, a tutti noi. Un po’ come quando si “tira la corda” della pazienza dei genitori e dei nonni, ben sapendo di essere molto amati. Ma qui l’intuito dei tre giovani ha visto giusto: niente smuove la misericordia di Dio come il nostro cuore realmente contrito e umiliato. È una cosa grande, questa. Anzi, il figlio più giovane della parabola del Padre misericordioso, un esperto di questa sfacciataggine giovanile, sa che verrà accolto anche se il suo pentimento non è esattamente come dovrebbe essere. “Mi alzerò e andrò da mio padre”. Dietro tutto questo c’è una fiducia, una fede: «non c’è delusione per coloro che confidano in te» (3,40).

Lectio Divina di Papa Francesco all’Università Lateranense, 26/03/2019; per il testo completo: qui.

 

2. La persecuzione è considerata da questo Cantico come una giusta pena con cui Dio purifica il popolo peccatore: «Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo – confessa Azaria – a causa dei nostri peccati» (v. 28). Siamo così in presenza di una preghiera penitenziale, che non sfocia nello scoraggiamento o nella paura, ma nella speranza.

Certo, il punto di partenza è amaro, la desolazione è grave, la prova è pesante, il giudizio divino sul peccato del popolo è severo: «Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia» (v. 38). Il tempio di Sion è distrutto e il Signore non sembra più dimorare in mezzo al suo popolo.

3. Nella situazione tragica del presente, la speranza ricerca la sua radice nel passato, cioè nelle promesse fatte ai padri. Si risale, quindi, ad Abramo, Isacco e Giacobbe (cfr v. 35), ai quali Dio aveva assicurato benedizione e fecondità, terra e grandezza, vita e pace. Dio è fedele e non smentirà le sue promesse. Anche se la giustizia esige che Israele sia punito per le sue colpe, permane la certezza che l’ultima parola sarà quella della misericordia e del perdono. Già il profeta Ezechiele riferiva queste parole del Signore: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?… Io non godo della morte di chi muore» (Ez 18,23.32). Certo, ora è il tempo dell’umiliazione: «Siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione, ora siamo umiliati per tutta la terra, a causa dei nostri peccati» (Dn 3,37). Eppure l’attesa non è quella della morte, ma di una nuova vita, dopo la purificazione.

4. L’orante si accosta al Signore offrendogli il sacrificio più prezioso e accetto: il «cuore contrito» e lo «spirito umiliato» (v. 39; cfr Sal 50,19). È proprio il centro dell’esistenza, l’io rinnovato dalla prova che viene offerto a Dio, perché lo accolga in segno di conversione e di consacrazione al bene.

Con questa disposizione interiore cessa la paura, si spengono la confusione e la vergogna (cfr Dn 3,40), e lo spirito si apre alla fiducia in un futuro migliore, quando si compiranno le promesse fatte ai padri.

La frase finale della supplica di Azaria, così come è proposta dalla liturgia, è di forte impatto emotivo e di profonda intensità spirituale: «Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto» (v. 41). Si ha l’eco di un altro Salmo: «Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26,8).

Ormai è giunto il momento in cui il nostro cammino sta abbandonando le strade perverse del male, i sentieri tortuosi e le vie oblique (cfr Pr 2,15). Ci avviamo alla sequela del Signore, mossi dal desiderio di incontrare il suo volto. E il suo non è irato, ma colmo di amore, come si è rivelato nel padre misericordioso nei confronti del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-32).

5. Concludiamo la nostra riflessione sul Cantico di Azaria con la preghiera stilata da san Massimo il Confessore nel suo Discorso ascetico (37-39), dove prende spunto proprio dal testo del profeta Daniele. «Per il tuo nome, Signore, non abbandonarci per sempre, non disperdere la tua alleanza e non allontanare la tua misericordia da noi (cfr Dn 3,34-35) per la tua pietà, o Padre nostro che sei nei cieli, per la compassione del tuo Figlio unigenito e per la misericordia del tuo Santo Spirito… Non trascurare la nostra supplica, o Signore, e non abbandonarci per sempre.

Noi non confidiamo nelle nostre opere di giustizia, ma nella tua pietà, mediante la quale conservi la nostra stirpe… Non detestare la nostra indegnità, ma abbi compassione di noi secondo la tua grande pietà, e secondo la pienezza della tua misericordia cancella i nostri peccati, affinché senza condanna ci avviciniamo al cospetto della tua santa gloria e siamo ritenuti degni della protezione del tuo unigenito Figlio».

San Massimo conclude: «Sì, o Signore padrone onnipotente, esaudisci la nostra supplica, poiché noi non riconosciamo nessun altro all’infuori di te» (Umanità e divinità di Cristo, Roma 1979, pp. 51-52).

Giovanni Paolo II, Udienza generale del mercoledì, 14/05/2003; per il testo completo, cf. qui.